Per gentile concessione del direttore della rivista principe dell’automobilismo italiano Quattroruote Gian Luca Pellegrini pubblichiamo in anteprima il suo editoriale pubblicato sul numero di Novembre
Dal redivivo Salone di Parigi. La prima è il sollievo nel rivedere la gente comune affollarsi attorno alle automobili – soprattutto quelle cinesi, conferma dei mutati equilibri nella bilancia geopolitica dell’auto – in un momento storico in cui la mobilità privata è considerata coacervo di tutti i mali. La seconda è la sorpresa nel vedere la distanza delle posizioni espresse da vari ceo europei. Luca de Meo della Renault dice che il 2035 non va toccato, che l’elettrico è l’unico futuro possibile e nel contempo chiede di spostare di due anni le sanzioni sullo sforamento della CO2 media che diventeranno più punitive nel 2025 («Possibile che dobbiamo essere gli unici idioti che devono pagare le multe?»). Oliver Zipse della BMW afferma che i dazi verso le Bev cinesi sono una stupidaggine e non capisce come «si possa arrivare alla conclusione che fra appena dieci anni l’elettrico sarà l’unica tecnologia percorribile. Se si guarda alle interdipendenze geopolitiche, al costo delle materie prime, al comportamento dei clienti, all’infrastruttura di ricarica, si giunge inevitabilmente a una varietà di soluzioni. Carlos Tavares di Stellantis rifiuta di appoggiare la richiesta di de Meo – forse per tagliargli le gambe nel caso avesse la mezza idea di candidarsi alla leadership della chiacchierata (e sempre smentita, con sospetta foga) unione fra Renault e Stellantis – e addebita l’insuccesso dell’elettrico alla scarsa generosità dei governi. Ursula von der Leyen, presidente della Commissione europeaOra, le differenti posizioni sono legittime, ché ogni azienda ha obiettivi e orizzonti geografici diversi. Ho però l’impressione che l’industria europea – infilatasi in un vicolo cieco non soltanto perché incapace di arginare il wishful thinking di una classe politica mossa dal dogmatismo, ma anche perché ha sottovalutato per mal riposto senso di superiorità (nei confronti di consumatori e rivali) la portata di un cambiamento epocale – fatichi a far fronte comune in un momento drammatico. Nonostante la sicurezza mostrata ai media dai grandi capi durante la kermesse parigina, la situazione va infatti deteriorandosi a una velocità inaspettata. E che la congiuntura stia diventando critica lo rivelano, oltre che le difficoltà di mercato (settembre ha di nuovo il segno meno), anche l’esplosione di dissenso all’interno dei costruttori stessi. Alla Volkswagen i sindacati sono sul piede di guerra dopo l’annuncio delle possibili chiusure, mettendo in pregiudizio le premesse fondanti della gestione in stile renano. E i dealer – ormai convinti che le Case li useranno come ammortizzatore delle proprie inefficienze (Federauto denuncia che metà delle elettriche immatricolate in Italia sono autoimmatricolazioni fatte per alzare surrettiziamente la quota Bev) – sono in aperta rotta di collisione. In tanti anni di carriera non avevo mai visto una lettera come quella mandata dai concessionari Stellantis a Ursula von der Leyen, dove si attacca frontalmente la strategia di Tavares (peraltro uscito malconcio da un’infuocata audizione al Senato italiano): «Si assiste a una forte riluttanza da parte dei clienti ad acquistare vetture Bev poiché i prezzi sono ancora alti e le infrastrutture di ricarica insufficienti: ciò ci pone in una posizione contraria a quella del produttore che rappresentiamo, che rimane ottimista circa il rispetto di queste severe normative UE». Un ammutinamento che diventa ancora più significativo alla vigilia di un 2025 in cui bisognerà fare carte false per evitare le multe. Di fronte a tale scenario sarebbe logico spingere, se non verso aperte alleanze, almeno verso la condivisione d’intenti. Invece, sembra che ognuno voglia giocare una partita a sé, come peraltro testimoniano le orecchie da mercante fatte dalla Volkswagen all’appello di de Meo al modello consociativo in stile Airbus per progettare le piccole elettriche. Per me, è un’opportunità perduta. I cinesi, supportati dal loro governo, si muovono coordinati (“cacciano in branco”, secondo la colorita espressione coniata dal capo di Acea); e lo stesso approccio di sistema hanno iniziato a perseguirlo i giapponesi, sotto la guida della corazzata Toyota (gli americani, una volta colonizzatori, si sono rifugiati dietro le barriere alzate dall’Inflation reduction act). Mentre la concorrenza mette a fattor comune le competenze, noi ci dividiamo sulla strategia da seguire.Su tre cose i marchi europei paiono d’accordo: sull’inutilità dei dazi doganali (perché tutti temono le ritorsioni che i cinesi stanno già mettendo in campo), sul rinvio delle multe al 2027 e sulla necessità che i governi rimettano generosi incentivi per spingere in modo artificiale le vendite delle Bev. Due considerazioni. Probabilmente le sanzioni per eccesso di CO2 slitteranno, perché il conto che dovrebbero pagare le Case è da far tremare i polsi (l’alternativa è di rallentare l’attività degli stabilimenti, con immaginabili conseguenze occupazionali). Va però ricordato che i costruttori avevano accettato le norme Cafe, che sono antecedenti al Green deal, perché certi del successo dell’elettrico: sarebbe corretto che qualcuno riconoscesse di aver sbagliato le previsioni in maniera clamorosa. E ci si domanda se non sia velleitario ritenere che nei prossimi 24 mesi i concorrenti non investiranno per mantenere immutato il gap tecnologico oggi evidente. Infine, una domanda polemica su questa reiterata richiesta di denaro pubblico: pretendere che i governi mettano mano al portafogli per sostenere artificialmente una tecnologia, con l’alternativa di dover gestire le implicazioni sociali delle fabbriche chiuse, non significa mutuare lo stesso meccanismo di sostegno che l’Europa rimprovera ai cinesi e che ha giustificato i dazi? |